Turismo nel Paesaggio rurale italiano: "Gente, vino e rocce delle Cinque Terre"
Cinque Terre, bellezza nascosta tra vigne e mare: un’emozione fortissima che fa battere il cuore, che ti regala felicità e benessere.

“Gente, vino e rocce delle Cinque Terre” era il titolo del primo articolo che Eugenio Montale scriveva sul Nuovo Corriere della Sera: era il 27 ottobre 1946.
Ecco l’espressione dell’anima di questo paesaggio, la sintesi in tre parole di un territorio solitario e seducente, di una bellezza nascosta.
A Monterosso al Mare, comune della provincia della Spezia in Liguria, il poeta trascorse le estati giovanili nella casa di famiglia, e lo scenario di mare, di vento di libeccio, di tramonti, di terrazze di vigne di vino nobile, di profumo di limoni, ha ispirato non poco i suoi versi indimenticabili.
“La casa delle mie estati lontane t’era accanto, lo sai, là nel paese dove il sole cuoce e annuvolano l’aria le zanzare”, uno dei tanti versi del poeta con cui ricorda i soggiorni estivi a Monterosso, dove ancora sorge la villa che ereditò dal padre.
Non si può scrivere di Cinque Terre senza amarle. Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza, Monterosso al Mare: 5 mucchi di case colorate, ocra, rosa, arancio, rosso, abbarbicate sulle rocce, che guardano il mare e alle spalle una serie infinita di geometrie spettacolari di muretti a secco.
Questo è lo scenario che rapisce lo sguardo del visitatore quando incontra questo paradiso di poesia. Una tavolozza di colori nei quali la vite diventa protagonista del paesaggio.
Un’emozione fortissima che fa battere il cuore, che ti regala felicità e benessere.
Un incontro tra filari di vigne verticali, suggestioni di pietre allineate e profumi di salsedine.
Siamo in provincia di La Spezia, in uno degli angoli più affascinanti della Riviera di Levante della Liguria, in un territorio che tutto il mondo ci invidia e che l’UNESCO ha decretato Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Un fazzoletto di terra dove si annidano questi 5 borghi autentici, selvaggi, intatti, di bellezza sublime.
Scogliere vertiginose, calette inaccessibili, porticcioli naturali difficili da raggiungere se non col treno o via mare, o meglio, attraverso una rete di sentieri che congiungono i paesini tra di loro e anche con le borgate su in alto, attente e meravigliose, che guardano il mare e sembrano toccare il cielo. Un territorio, quasi irraggiungibile, dove i sentieri possono sembrare più adatti a un mulo che agli uomini.
E allora, parliamo di Poesia della Natura, un incanto che devi osservare, curiosando, sostando, meditando. Un paesaggio che devi saper comprendere, una bellezza insolita, solare, nascosta, scontrosa e raffinata da scoprire e assaporare.
Un paesaggio verticale che sembra innalzarsi dal mare ed elevarsi verso il cielo; uno sviluppo di chiese e casupole, le une sulle altre, multicolori, aggrappate alle scogliere, innalzate a sfidare la legge di gravità e le regole dell’equilibrio.
“..dalle vigne geometriche scenderà tra poco l’uva; dal mare sale sempre il pesce. E chi va a pesce è il medesimo che sale alle vigne” scriveva, nel 1955, Renato Birolli, pittore veronese, abituale frequentatore delle 5 Terre.
E in questi fazzoletti di terra profumata, l’opera instancabile dell’uomo ha saputo modellare terre impossibili, la fatica di intere generazioni ha trasformato la montagna in vigneti, creando luoghi di sussistenza familiare oltre che di estrema suggestione paesaggistica. Mi riferisco all’economia del territorio, da sempre suddivisa tra terra e mare, tra agricoltura e pesca.
L’uomo si era spinto fin qui già nell'XI secolo, dall’entroterra, quando lasciò la Val di Vara, superò lo spartiacque della catena costiera che la separava dal mare e andò ad abitare lungo la costa dove si godeva di un clima migliore, più adatto alla coltivazione di alcuni prodotti come la vite e l'ulivo.
I cinque paesi non nacquero quindi come borghi marinari, bensì come borghi agricoli, voluti da questo popolo tenace, attaccato alla terra, costretto a vivere nell’isolamento, nella miseria e nella paura, che molto spesso arrivava dal mare.
Costretto a bonificare, quindi, un territorio che non era naturalmente adatto alla pratica agricola, l’uomo strappò terreno coltivabile alla roccia, costruendo muretti a secco, portando la terra sulle spalle e piantando la vigna e l’ulivo: creò così il terrazzamento sui fianchi dei monti.
Ecco, lo spettacolo è servito! Terrazzi affacciati sul mare, dove il contadino, in molti punti, è aggrappato al cielo, attaccato ad una corda per lavorare la terra. Il vignaiolo diventa un eroe e la coltivazione della vite diventa “viticoltura estrema, eroica”!
E tra un’asperità e l’altra nacquero i cinque incantevoli villaggi: una magia lunga cinque miglia, dal promontorio di Punta Mesco, a Ponente, alla Punta di San Pietro a Levante, verso Portovenere; una poesia composta da cinque mila abitanti, eredi fedeli dello spirito ligure, avvezzo alle avversità, da sempre in lotta con il loro ambiente ma legati a questo da una lunga storia d’amore.
Ma fascino e seduzione derivano dal “viaggio” che si compie tra una “terra e l’altra”, sì, dallo spostamento che si deve esercitare per ammirare le bellezze autentiche dei cinque borghi. Sto parlando dei sentieri che, longitudinalmente e trasversalmente, congiungono e attraversano queste meraviglie, isolate e tenere, invitanti e spettacolari.
E non bisogna fermarsi ai borghi sul mare; è bello e rilassante, anche se a volte la fatica diventa importante, risalire le colline, arrivare sui crinali, dominare il paesaggio disegnato dall’uomo e regalato dalla natura. Biassa, Volastra, Groppo, Campiglia e tante altre piccole località si raggiungono attraverso queste antiche mulattiere, oggi sentieri, riportati sulle guide, i più importanti numerati dal C.A.I.
Il consiglio è quello di percorrerli, soprattutto i secondari, con una guida autorizzata, e muniti di una preziosa carta dei sentieri.

Camminare su queste vecchie vie significa ripercorrere la storia di questi antichissimi paesi che esercitavano i loro commerci attraverso queste mulattiere, che andavano dai borghi dell’entroterra a quelli sul mare, scavalcando il crinale della catena di monti che va da Portovenere a Levanto.
Dal versante a mare saliva sale, vino, pesce, etc., dall’altro versante bestiame, cereali, legname, etc.. Traffici più o meno intensi tra l’economia agricola-forestale dei paesi dell’entroterra e l’attività peschereccia e marittima dei borghi delle Cinque Terre. In questi ultimi paesi, l’economia agricola si basava quasi esclusivamente sulla cultura della vite e sul commercio del vino. Qui, non si potevano allevare che animali da cortile, per mancanza di boschi e di prati, per cui il bestiame da macello veniva importato dai paesi dell’entroterra, facendolo transitare, vivo, lungo le belle mulattiere di allora. Esistono ancora tracce di muretti eleganti e selciati di pietre ben conservati, un autentico tesoro da preservare e conservare per le future generazioni, testimonianza di storie di vita e di fatiche umane che sono arrivate, intatte, fino a noi.
Sentieri che attraversano il paradiso, che toccano il cielo, che si tuffano nel blu, sentieri che profumano di vino, che giocano con le infinite sagome dei muretti a secco e si insinuano tra scalini faticosi di pietre antiche e qualche vecchio casolare che guarda il mondo. E le emozioni sono profonde per questo meraviglioso patrimonio ambientale-paesaggistico..
Qui la realtà vitivinicola è formata da piccoli produttori, vignaioli pervasi da un grande amore per questo territorio, per questo lavoro e fortemente attaccati alle tradizioni. Sudore e fatica, tra agavi e pini marittimi, accompagnati dal profumo intenso e caldo della macchia mediterranea, questa è l’espressione del viticoltore delle Cinque Terre. È una esaltazione continua dei vitigni locali, una produzione, vendemmia dopo vendemmia, dal carattere squisitamente “contadino” e dalle sensazioni uniche.
Da queste parti, si imbarcava vino già al tempo dei Romani, come ci tramanda Plinio, era la celebre Vernaccia che tanto dilettava i palati di Papi e nobiluomini e faceva il giro dell’Europa. A Pompei, distrutta nel 79 d.C., sono stati ritrovati vasi da vino con l’iscrizione vinum corneliae, Vernaccia di Corniglia. “Quel fiero Sciacchetrà che si pigia nelle cinque pampinose terre”, cita D’Annunzio, in proposito. Un vino che riesce ad esprimere, un mix di caratteristiche che coniugano, straordinariamente, la sapidità tipica dei vini di costa, con sentori marini molto netti, uniti ad aromatiche note di erba.
E probabilmente la Vernaccia di Corniglia era il progenitore dell’odierno Sciacchetrà, ottenuto da varietà di vitigno locale, come il Bosco (60%), l’Arbarola e il Vermentino, selezionate con cura e fatte appassire. Frutto della fatica di pochi e tenaci vignaioli che ancora lo producono. Acini diraspati a mano, alla fine, producono 25 litri da un quintale di uva. Le zone di produzione sono oltre ai 5 borghi, due località limitrofe, Tramonti di Biassa e Tramonti di Campiglia.
Sciacchetrà, nome particolare che deriva dall’ipotesi dialettale “schiaccia (l’uva) e trai (il vino)”, se non da una suggestiva derivazione dall’ebraico “shekhar”, vino puro, che inebria, vino da solennità. In ogni caso, siamo di fronte, anzi, mettiamo in bocca un Passito aristocratico nei profumi, con sentori che regalano confettura di albicocca, pesca gialla e vaniglia, miele di acacia e spezie, retrogusto di cedro candito, mai stucchevoli, suadenti e vellutati. Da meditazione o abbinato al pandolce genovese..
E prima di andar via, concedetevi una passeggiata al chiaro di luna, magari con un tulipano di Sciacchetrà in mano, tra le viuzze storte di Riomaggiore o di Manarola, quando il riflesso d’argento crea su quelle barche ammucchiate sugli scogli, su quelle facciate sbiadite e scrostate dal sale, su quelle onde incantate, una luce unica, che in nessun’altra parte della Terra si riesce a percepire.
Grazie a questi piccoli borghi per l’incantesimo che sanno offrirci!
Reportage di Andrea Di Bella
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