Cultura & Spettacoli

Tra le righe di Camilleri, tutti (o quasi) pazzi per il Commissario Montalbano

Scritto da Andrea Di Bella Martedì, 23 Mar 2021 - 0 Commenti

Il successo della serie televisiva “Il metodo Catalanotti” su Rai1 non può prescindere da un complice inaspettato: è la location geografica, la Sicilia del Ragusano e dell’Agrigentino.

Ma ti sei mai chiesto cosa voglio io? Si può scegliere di stare da sola!”, dice Antonia (Greta Scarano) a Salvo Montalbano (Luca Zingaretti), rapito da un’attrazione irresistibile per la giovane trentenne della Polizia Scientifica di Palermo, arrivata al Commissariato di Vigàta, fiera, orgogliosa, solare e sicura di sè, donna libera, che sa quello che vuole.

Siamo nella puntata “Il metodo Catalanotti”, andato in onda lunedì 8 marzo su Rai1, forse l’ultima dedicata a Il Commissario Montalbano.

È il momento della svolta nella sua vita, impaurito dall’età che avanza, dal fatto che gli ultimi fuochi si spengano. È arrivato il tempo dell’ardore e dello slancio che assomiglia a quello della giovinezza ma non lo è. A questo punto, vuole una storia d’amore ravvicinata, un’affettività diversa, che Livia (Sonia Bergamasco) non è riuscita a dargli in questi anni.

È la fine di un amore durato vent’anni, tanti quanti ne ha la fortunatissima serie televisiva ambientata in una Sicilia immaginaria e bellissima, inizialmente quasi sconosciuta ai più (a parte la Valle dei Templi), ora famosa in tutto il mondo.
Un colpo di scena inatteso, un amore che finisce con un lungo silenzio al telefono.

Fatto sta che sui social si sono scatenati commenti di ogni genere per la fine di questo amore a distanza, e per giunta il giorno della Festa della Donna.

Anche Zingaretti, però, afferma che “è stata una vigliaccata”. D’altronde, "Montalbano non avrebbe mai potuto sposarsi con Livia, perché non ci si sposa con la propria coscienza", aveva affermato in altre occasioni lo scrittore siciliano.

Ma, se riflettiamo un attimo, Antonia, alla fine, scende dal treno e bacia Montalbano, sceglie di stare con lui. A chi dare ragione? All’amore chiuso nel silenzio per telefono o ad un amore che sboccia, insaziabile e spontaneo, a prima vista? Il dibattito è aperto.

Vent’anni di successi, frutto della penna di quel genio, quel grande Maestro che ci ha lasciati un paio d’anni addietro, Andrea Camilleri. Regista, autore e sceneggiatore in televisione e a teatro, ma  soprattutto, acuto romanziere, lo scrittore ha voluto chiudere (definitivamente?) la serie tv del Commissario Montalbano col suo primo amore, quello per il teatro.

L’idea di ambientare uno dei miei romanzi in un contesto teatrale - aveva affermato Camilleri in una delle sue interviste -  è stata di mia moglie. Ma come? Hai fatto per tutta la vita teatro… sarebbe bello se un giorno Montalbano si venisse a trovare dentro l’ambiente teatrale!”.

E così è stato. Nell’episodio de Il Metodo Catalanotti traspare tutta la passione del romanziere per il teatro. Un uomo, sadico, Carmelo Catalanotti, regista di una compagnia di teatro amatoriale, ossessionato, appunto, dal teatro, fa vivere ai suoi attori esperienze umilianti e viene trovato morto. E da qui si scatena un gioco pirandelliano su verità e finzione dove Montalbano deve fare i conti con la sua vita e con l’amore.

Ma dalla mente e dalla penna del grande Maestro è il personaggio del Commissario che viene fuori in tutta la sua straordinarietà, in questi anni.

Per Il nome del personaggio, Camilleri si è ispirato allo scrittore spagnolo Manuel Vásquez Montalbán, diventato suo amico, che nei suoi romanzi aveva inserito un detective privato, Pepe Carvalho. Ma come figura, il Maestro non si è reso conto subito del personaggio che lo ispirava… gliel’ha fatto notare sua moglie “tu stai facendo un ritratto a puntate di tuo padre”.

Quando, in seguito, mi ritrovai tra le mani un personaggio giallo da delineare, gli diedi il nome di Montalbano, prima di tutto perché si trattava di un cognome siciliano diffusissimo e in secondo luogo, proprio, come ringraziamento a Vásquez Montalbán”.

Ed ecco il Montalbano creato dal romanziere siciliano, un personaggio che ama la sua terra, il suo mare, il suo lavoro, la sua donna, la sua squadra. Uomo schivo e solitario, con un forte senso morale, dal carattere spigoloso, amante del buon cibo, goloso e continuamente affetto da un pititto smisurato. Il cibo diventa protagonista trasversale di tutte le storie, (quello della cammarera Adelina, di don Calogero dell’osteria di Vigàta e dell’incantevole trattoria-belvedere, sulla sabbia di Marinella), dove, tra ipotesi criminali e ricette gustose di cucina, si snodano brillanti conversazioni.

Cibo che, per gustarlo come Dio comanda, ha bisogno di essere accompagnato sempre da un bel bicchiere di vino. E la passione per la buona tavola emerge ad ogni angolo e in ogni situazione: Montalbano, che non cucina, ama i piatti tipici della sua terra, dalla ‘pasta 'ncasciata, alla caponatina di melanzane, alle triglie di scoglio fritte, preparati con cura ma anche con semplicità”. E poi gli arancini che entrano in scena, come d’incanto, anche nei frangenti più delicati e intriganti della fiction. Per non parlare di quei cannoli invitanti,  oggetto di continue zuffe tra il commissario e l’amatissimo nemico dottor Pasquano, fino al punto di essere divorati da entrambi in pochi secondi – nell’episodio Il campo del vasaio – per siglare la pace, dopo mille tensioni.

Portare sullo schermo e fare emergere vizi e consuetudini del detective, il rapporto personale con i suoi subalterni, quel linguaggio ricco  e colorato di vocaboli dialettali, il rapporto di incontro-scontro con l’adorabile Mimì Augello (Cesare Bocci), l’insostituibile fiducia nel provvidenziale Fazio (Peppino Mazzotta), il lessico strampalato ed esilarante di Catarella (Angelo Russo), la ‘rottura di cabasisi’ dello scorbutico medico legale, dottor Pasquano (il compianto Marcello Perracchio), diventano, così, strategici ed essenziali, anche perché permettono al lettore di affezionarsi al personaggio e di protrarre questo affetto in tutte le diverse avventure di cui è protagonista.

Un’esperienza meravigliosa e straordinaria”, ha affermato Luca Zingaretti sui social. “E' stato bello per me, devastato dalla nostalgia, riguardarmi Il metodo Catalanotti. Ho risentito gli odori delle spiagge siciliane, ne ho assaporato i colori, ho gustato la dolcezza di quei nostri luoghi. E' stato bello per me commuovermi ed emozionarmi, intenerirmi e sorridere per le debolezze dei nostri amici, per i loro difetti, per le loro vicende, per le loro vigliaccherie e per i loro amori così semplicemente autentici e umani".

Se a tutto questo aggiungiamo l'attrazione naturale del giallo e la regia di eccellente qualità di Alberto Sironi, che ci ha lasciati nel 2019, il gioco è fatto.

Ma il successo della serie televisiva non può prescindere da un complice inaspettato: è la location geografica, la Sicilia del Ragusano e dell’Agrigentino.

Scenari indimenticabili che hanno saputo creare atmosfere sorprendenti ed interpretare magistralmente i luoghi della fantasia letteraria di Andrea Camilleri.

Certo, ricreare la Sicilia dei suoi romanzi, ambientati in provincia di Agrigento (dove è nato), non era facile, perché quei luoghi erano ormai trasfigurati dal cemento. Da qui la scelta di dare nomi di fantasia a questi luoghi della memoria, per non creare un legame troppo diretto con il loro aspetto da portare sul teleschermo.

Ed ecco che Porto Empedocle (paese natale dello scrittore e fulcro dei suoi libri) prende il nome di Vigàta, Sciacca quello di Fiacca, Agrigento diventa Montelusa, etc.. Ma per non  creare complicazioni, se la Vigàta dei ricordi è andata perduta come fare a ridarle i tratti che ha nei romanzi? La soluzione è stata quella di (ri)scoprire antiche località e lidi solitari nel Ragusano, lì ancora intatti, che messi insieme, come in un puzzle, potessero far risorgere virtualmente Vigàta dalle ceneri.

La serie televisiva ci restituisce, così, immagini di una Sicilia incantata, autentica e affascinante, un paesaggio da cartolina d’epoca: spiagge deserte a perdita d’occhio, campagne che danzano con le geometrie dei preziosi muri a secco di antichissima pietra bianca che delimitano i campi di mandorli e carrubi, filari di fichi d’India, agavi gigantesche. Ma la visione inibisce quelli che sono i profumi intensi, quasi da stordire.

Luoghi che bisogna visitare nelle stagioni intermedie anche se l’estate regala sensazioni straordinarie, specie a ridosso del mare, dove il profumo dei gelsomini si mescola, magicamente, a quello salmastro delle onde quasi africane, per non dire del pane appena sfornato.

All’interno, città d’arte, necropoli, il trionfo del barocco, antiche dimore nobiliari, le cave, le profonde fenditure scavate nel calcare dai corsi d’acqua.

Vigàta non esiste ma esistono quelle piazze, quei palazzi, quegli scorci di Sicilia old style ammirati in tv. Sono quelli del centro storico di  Ragusa Ibla, Patrimonio Unesco, un capriccio barocco voluto dai nobili dopo il terremoto del 1693: uno sperone di roccia da Santa Maria delle Scale alla Chiesa di San Giorgio, un’inquadratura da batticuore, che offre eterna bellezza tra mosaici di tetti e campanili.

Perdersi tra quel labirinto di scale, stradine e vicoli diventa un gioco emozionante per andare a caccia di sirene, angeli, mostri e putti che ornano i sotto balconi dei palazzi barocchi, un po’ palcoscenico degli artisti. E sedersi al tavolo di una pasticceria sulla piazza principale, riparati dalle palme, a gustarsi un cannolo di ricotta appena preparato e un ottimo caffè o una granita al gelso nero con panna, diventa quasi un dovere suggerito dagli Angeli di quel Paradiso. Qui, inizia un viaggio nel barocco siciliano, la scoperta dei luoghi della fiction diventa poesia architettonica di un passato scomparso. Lo scenografo Luciano Ricceri, anche lui scomparso nel 2020, ha fatto poi la sua parte egregiamente e dobbiamo ringraziarlo per sempre..

Ma l’incantesimo si ritrova andando a spasso attraverso i luoghi del racconto: Modica, Scicli, Noto, Ispica, Palazzolo Acreide, sono lo scrigno di quel barocco, un vero giardino di pietra. Un disordine intrecciato di strade, saliscendi, gradoni e piazze.  Una scenografia splendida che attrae in ogni caso, fosse solo per curiosità, a volte sbeffeggiando anche regole architettoniche e stili di vita.

Fascino e arte convivono armoniosamente. Qui, dove è quasi impossibile trovare due strade uguali, due cortili simili, anche i tetti delle abitazioni hanno colori strani, creano suggestione pittorica, si fanno coccolare. Per non parlare delle chiese e dei conventi, delle scalinate infinite per raggiungerli, delle preziose e portentose inferriate di protezione, illuminate da un sole testardo.

E, poi, arriviamo al mare, lì vicino. Altre sorprese, scenari diversi. Scopriamo Marzamemi, piccolo villaggio di pescatori, intorno all’antica tonnara, un pugno di case basse di pietra, un grande arco ed ecco la piazza assolata, una magia del silenzio interrotto, in tempi moderni, solo dal rumore della forchetta che gironzola con avidità in un piatto di spaghetti al tonno che solo qui raggiunge sapori inaspettati. È la piazza dei capolavori dei registi Peppino Tornatore e Gabriele Salvatore, oltre che, naturalmente location d’eccezione de Il Commissario Montalbano.

Capo Passero è lì dietro ed assistere al rito dello sbarco del pesce a Portopalo è sempre uno spettacolo nello spettacolo. Sabbia, solitudine, silenzio e un mare cristallino ti accompagnano nelle spiagge di Scoglitti, Donnalucata, Cala Mosche, nella Riserva di Vendicari, per finire a Punta Secca dove si avvera il sogno di quasi tutti i visitatori: la villa di Montalbano, ormai luogo di culto.

Anticamente, era un vecchio magazzino per dissalare le sarde. Oggi è una cartolina entrata in tutte le case del mondo. Lasciate la casa del commissario e, dopo la foto di rito della cinquecentesca Torre Scalambri, sorvegliati dal Faro borbonico che guarda il Mediterraneo, sarete accolti dalla Trattoria di Enzo a mare, dove, stavolta, non troverete più il commissario ma quei quattro tavoli sulle sabbie dorate e, sopra, quelle “sarde a beccafico” appena pescate, che tanto piacevano al nostro protagonista.

“S’arrisbiliò malamente: i linzòla, nel sudatizzo del sonno per via del chilo e mezzo di sarde a beccafico che la sera avanti s’era sbafàto, gli si erano strettamente arravugliate torno torno il corpo…” (da: Il ladro di merendine”).

                                                                     A cura di Andrea Di Bella

Foto: Andrea Di Bella