Territorio & Eventi

Dialoghi di Vino e di Langa con Roberto Vezza, enologo a Monforte d’Alba

Scritto da Andrea Di Bella Giovedì, 20 Gen 2022 - 0 Commenti

Una conversazione a ruota libera con l’enologo della Cantina Josetta Saffirio, papà di Sara Vezza, titolare dell’omonima azienda agricola. Racconti, storie, segreti, aneddoti degli ultimi 50 anni del vino delle Langhe.

Mi arrampico, ma non troppo, tra i tornanti verso Castelletto di Monforte d’Alba (Cuneo), in una giornata un po’ velata, con un sole pallido che evidenzia le prime brume autunnali che accarezzano filari ancora pieni di grappoli, prima della vendemmia. Attorno a me una meraviglia di biodiversità, un angolo nascosto di Langa che mi permette, però, di scorgere i castelli di Castiglione Falletto e di Serralunga d’Alba.

Silenzio e natura mi accompagnano in questo paesaggio che evidenzia Bellezza e racconta storie di contadini e di vino sin da tempi lontani.

Incontro Roberto Vezza, di professione enologo, un animo gentile, schietto, una storia alle spalle fatta di sacrifici, di gavetta, ma anche di grandi affermazioni e di orgoglio che continua tuttora felicemente. Roberto, oggi, è l’enologo della Cantina Josetta Saffirio, la cui titolare è la figlia Sara, straordinaria innovatrice e coraggiosa donna del vino, imprenditrice lungimirante, molto apprezzata nell’ambiente. Ma ha un passato, lungo 50 vendemmie, da raccontare.

L’inizio della conversazione con Roberto parte da lontano. Come sempre, le belle avventure partono da tempi lontani che, però hanno lasciato segni indelebili nella memoria dell’uomo, ricordi di tempi duri ma anche di felicità. E, poi, uno sguardo sul futuro, fatto di speranza e di ottimismo.

Roberto, quando ebbe inizio tutto?
Io nasco in campagna, a Diano d’Alba, i miei genitori erano contadini: papà vivaista, faceva le barbatelle… in famiglia ho studiato solo io; le mie due sorelle si sono fermate presto alla licenza media. Mia mamma voleva che facessi il ragioniere, mio padre desiderava un figlio geometra. Da ragazzo avevo conosciuto un amico di mia sorella che aveva frequentato la Scuola Enologica di Alba ed era contento del corso di studi che aveva trovato interessante. Io avevo 14 anni e per accontentare i miei genitori…mi ero iscritto alla Scuola Enologica di Alba. Mi era subito piaciuta: si andava in campagna, si potava, io qualcosa sapevo già fare sui terreni e sugli alberi da frutto, seminare il grano. Mi sono diplomato nel 1972.

Se avessi la possibilità di tornare indietro rifaresti lo stesso percorso?
La Scuola di Enologia ti dà una base di conoscenze sul mondo agricolo in genere e in particolare sul mondo del vino. Io qualcosa avevo già nelle vene, avevamo la vigna… si respirava già aria di filari; si doveva intervenire sulle malattie della vite. Mentre i miei compagni hanno studiato la fillossera, io l’ho vissuta!

Com’è cambiata  negli anni la tua professione?
È cambiata completamente e ti spiego il motivo: quando mi sono diplomato c’era già qualche “Maestro del vino” in Langa. Io ho avuto la fortuna di conoscere subito Renato Ratti, un “innovatore” del Barolo, uno degli artefici della rivoluzione tecnica e culturale del mondo del vino in Piemonte e in Italia. Renato era una persona squisita, giusta, di una semplicità disarmante, uno che vedeva lontano. Ricordo che, assieme a suo nipote Massimo Martinelli (altro personaggio storico del vino n.d.r.), enologo, avevano organizzato dei viaggi di esplorazione in Borgogna. Perché? Ci si chiedeva come mai il vino d’Oltralpe costasse così caro. Certo la posizione geografica della regione era un punto a favore che si traduceva in economia commerciale: una via di passaggio invidiabile. E poi anche il territorio di Bordeaux era straordinario da questo punto di vista. Il prezzo di una bottiglia francese era 6 volte superiore a quello del nostro Barolo. Stava per cambiare la nostra linea di pensiero.

Una nuova strada davanti a te, giovane enologo in  cerca di affermazione…
Il mio primo vero lavoro è stato alla ILLVA di Saronno, l’azienda dell’Amaretto. Lì ho fatto i miei primi passi professionali. Dopo tre anni, il salto di qualità in un’azienda del vino, la ‘Marchesi di Barolo’. In quegli anni, l’azienda storica di Barolo non andava bene… i vini non riscuotevano successo! E qui entra in scena di nuovo Ratti. Ha aperto molto la visuale non solo a me. Mi ha portato in Francia assieme a lui e agli altri. In quegli anni nasceva “un manipolo di piccoli produttori”, cominciava la “nuova era del Barolo”, entravano in scena i “Barolo Boys”, fino ad allora semplici contadini di Langa che, praticamente sconosciuti fino alla fine degli anni Ottanta, hanno cambiato modo di interpretare e comunicare il vino. Qualche nome? Elio Altare, che era riuscito ad intessere rapporti con qualche collega di Borgogna, Domenico Clerico, vignaiolo di Monforte d’Alba e tanti altri. Ma vorrei spendere parole di elogio per Luciano Sandrone, cantiniere alla Marchesi di Barolo e per 20 anni collega di lavoro con il quale ho condiviso esperienze, esperimenti, tecniche di vinificazione innovative e tanta passione.

Quei viaggi in Borgogna, a Bordeaux… un vero cambio di marcia…
Vedi, il vino da noi in Langa, fino ad allora, era considerato un alimento e basta. Non aveva quel valore, non era la risorsa che è oggi. I viaggi in Francia hanno rivoluzionato le nostre idee, hanno aperto nuove strade, hanno capovolto il nostro modo di concepire il Barolo. Noi eravamo convinti che il Barolo dovesse essere duro, austero, tannico e… abbinato alla “lepre al civet”. Ma quante lepri c’erano in Piemonte! Si guardava di più agli accostamenti ai piatti. Si facevano macerazioni lunghissime, con poca attenzione alle temperature, per cui i vini erano estremamente tannici. Si lasciavano, quindi, nel legno 4, 5 anni per alleggerirli del tannino, ma intanto si ossidavano. Non avevamo fatto, ancora, il salto di qualità. Quando in Francia si stappava una bottiglia di Borgogna… era di una piacevolezza incredibile. Dopo 3 o 4 anni di invecchiamento esprimeva ancora una freschezza straordinaria e una bevibilità accattivante. Aprivi una bottiglia importante, l’assaggiavi e la tiravi giù fino all’ultimo sorso con grande appagamento: c’erano dentro i profumi che evolvevano, la prugna, le marmellate, le confetture. Non sapevano mai di vecchio! Da lì abbiamo deciso di cambiare rotta.

E il segreto di quella piacevolezza?
Da quelle parti, le botti erano tutte nuove, non si vedevano in circolazione botti vecchie. Quell’anno, anno e mezzo di passaggio in botti di legno nuovo dava vita al vino. I Francesi sono stati i primi a dare alle fiamme le botti vecchie. A questo punto abbiamo alzato il tiro…si doveva cambiare tecnica di affinamento, non più botti vetuste ma nuove, fresche. Abbiamo cominciato ad usare botti piccole, barrique sempre nuove, legni stagionati all’aperto. Il legno veniva sottoposto alle intemperie, al sole, al freddo e al gelo, alla pioggia… in questo modo i tannini venivano lavati e il legno cambiava completamente. Eravamo andati a scoprire  come veniva trattato il legno prima di costruire la barrique, non lo sapevamo e l’abbiamo imparato là.

Come sei riuscito ad accodarti a Renato Ratti in quei viaggi francesi, tu così giovane?
Lui era amico dei miei titolari alla Marchesi di Barolo, i quali avevano visto l’iniziativa molto interessante. Renato mi disse “vieni, vieni, vedrai che ti servirà…ti do io qualche dritta”    

Quindi, grande collaborazione tra vignaioli di Langa?
Eccome, al massimo. Intesa meravigliosa. Quei pullman che erano partiti da queste nostre colline erano pieni di giovani produttori, molti dei quali sono, poi, diventati “i grandi di Langa”. Stava per compiersi la rivoluzione delle nostre cantine. Oggi, tu stappi una bottiglia di Barolo…la bevi sorseggiando fino in fondo, con leggerezza, sentimento e tanta gradevolezza.

Roberto, puoi soffermarti, dal punto di vista tecnico, sui vantaggi della barrique?
Vedi, i grandi vini rossi contengono i polifenoli, che danno il colore, gli antociani e i tannini. Gli antociani danno il rosso mentre i tannini danno la struttura. Cosa succede? Che nel giro di qualche anno, gli antociani potrebbero ossidarsi se non ci fosse la presenza dei tannini che, grazie ad un ponte di ossigeno, si legano agli antociani. Quindi, per forza di cose, il vino deve prendere aria… e dove? Nel legno, la cui porosità è fondamentale! Il vino in barrique dei Francesi aveva più colore, maggiore profumo, era più morbido. Certo loro erano avvantaggiati dal fatto di possedere enormi boschi di rovere. Noi dobbiamo importarlo quel legno.

La ricerca in enologia è in continua evoluzione
Certo, direi l’enologia associata alla viticoltura. Esiste un legame indissolubile, eccome. Intanto, la scelta della zona, del terreno, dell’esposizione del vitigno da impiantare; poi bisogna tener conto delle condizioni climatiche e del microclima in particolare. Molto importante è il modo di lavorare la vite. E poi le rese per ettaro! E qui devo ricordare ancora il Maestro Ratti ed Elio Altare; erano stati i primi a parlare di “diradamento”, di buttare giù l’uva. Allora, erano considerati pazzi, incoscienti, visionari! Tornando alla mia professione, bene, anche noi dobbiamo lavorare a stretto contatto con l’agronomo, il viticoltore, in tutte le fasi di produzione. È un binomio insostituibile, essenziale. Io so come deve diventare l’uva.

Chi decide il momento della vendemmia?
Lo decide l’enologo. È un momento importantissimo. Sbagliare anche di pochi giorni può far fallire l’annata. Ci sono delle linee di pensiero, anche autorevoli, che suggeriscono di raccogliere le uve il più tardi possibile. A questo proposito, permettimi un esempio. La vendemmia 2010 ha avuto un andamento climatico piuttosto bizzarro nelle Langhe: pioggia, pioggia… e l’uva è andata. Chi aveva vendemmiato per tempo aveva ottenuto forse il miglior Barolo degli ultimi 50 anni, classificato col massimo dei punti, dalla rivista americana Wine Spectator, per 4 importanti produttori. La prestigiosa rivista si era così espressa: “Il Nebbiolo, nonostante le piantagioni altrove, raggiunge il suo apice solo nelle Langhe. Le chiavi sono la geologia collinare con terreni variegati di calcare, sabbia e argilla, e come ogni produttore ha scelto specifiche tecniche di vinificazione ed invecchiamento che mostrano i loro siti al meglio”.

Si può affermare, quindi, che il tempo della vendemmia è il parametro più importante per classificare una buona annata?
No, non è così. È un indicatore significativo, certo. Ma è tutto talmente complesso che ogni particolare assume una sua specificità e diventa una componente importante. È la sommatoria di tanti indicatori, 20 o 30, che determina la buona annata. La qualità non si fa se si vendemmia giovedì piuttosto che sabato.

Dopo tre decenni circa alla Marchese di Barolo è cominciata per te un’altra vita…
Nel 2013 finisce la mia attività da enologo alla Marchesi di Barolo. Mia figlia Sara (nella foto con papà Roberto), nel frattempo aveva iniziato la sua avventura da vignaiola nel 1999 nell’azienda di famiglia che avevamo avviato io e mia moglie, (Josetta Saffirio n.d.r.) nel 1985. Una volta chiuso il rapporto di lavoro con la Marchesi di Barolo, Sara mi ha reclamato: però devo dire che, da ragazzina, si era mostrata indifferente, poco motivata nei riguardi della nostra cantina e poco disponibile ad entrare nel mondo del vino. Ma, crescendo, venne il tempo dei nostri viaggi in Australia, Nuova Zelanda, in Francia. Probabilmente lì, in quei luoghi, Sara ha meditato, ha cominciato ad innamorarsi del mondo agricolo e, in particolare, del mondo del vino. Un bel giorno mi dice: “Papà io voglio aprire un’azienda agricola”. A quel punto le ho regalato un paio di forbici da potare e una zappa e così è iniziata la sua avventura tra i filari. Oggi, dopo alcuni anni, si arrabbia perché non ha più il tempo per andare in vigna. Prima faceva tutto lei con l’entusiasmo che ancora oggi l’accompagna in tutte le sue attività.  

La tua storia enologica è un bell’intreccio con l’azienda di famiglia!
Si, è proprio così. Avevamo iniziato con pochi filari di Nebbiolo a Castelletto di Monforte d’Alba, dove siamo ancora oggi. Con l’impegno di Sara abbiamo costruito una nuova cantina, ho comprato altre piccole vigne che si sono aggiunte a quella di mia moglie (a quei tempi i prezzi erano competitivi n.d.r.). Abbiamo riconvertito le vigne di Barbera e di Dolcetto in Nebbiolo. Avevo intuito che il futuro da noi sarebbe stato il Barolo, come il Pinot nero in Borgogna.

Passiamo ai giorni nostri, parliamo del progetto “Alta Langa”, lo spumante in cui credi molto
È proprio così! Inizialmente ne parlai con Sara che era un po’ perplessa, ma dopo qualche tempo se n’era innamorata. L’Alta Langa è un progetto eccezionale… vuoi mettere il paesaggio di questo territorio? Oltre una certa altitudine potremo avere le condizioni climatiche che, ad esempio, non per ripetermi, ha la zona dello Champagne, molto a Nord, che è tutto dire.

Tutto questo cosa ti porta a dire cosa?
Che dedicarsi al progetto di spumantizzazione potrebbe diventare un business per il mondo del vino di questa zona. Lavorando bene, credo si possa fare un validissimo spumante. Ecco che abbiamo acquistato 16 ettari di terra a Murazzano, di cui 5 a bosco, e siamo in fase di preparazione del terreno. Vogliamo salvaguardare la foresta, gli alberi storici, perché sono bellissimi e sarebbe un delitto tagliarli. Creeremo delle macchie per tutelare la Bellezza dell’ambiente circostante. È una linea di pensiero di Sara e di tutti noi.

Quindi 11 ettari riservati alla produzione dell’Alta Langa!
Si, un bell’appezzamento. Già dalla prossima primavera pianteremo i primi 5 ettari e dopo 3 anni la prima vendemmia. Sono molto fiducioso e ottimista.

Ma reggerà il confronto tra Champagne e Alta Langa?
Sono due cose completamente diverse. Se si considera che la storia del vino francese è iniziata molto tempo addietro e gode oggi di un’immensa notorietà a livello mondiale, credo che tra qualche decina o anche tra cento anni il nostro Alta Langa possa diventare importante quanto lo spumante d’Oltralpe. Bisogna lavorare bene tutti, però!

Lavorare bene tutti… a chi ti riferisci?
Ai miei colleghi, ai produttori di Langa che in questi anni hanno lavorato benissimo. È un discorso di squadra. Voglio dare dei meriti a tutti. Come fai a dire che Elio Grasso non sia un genio, il primo che mi viene in mente. Lavorava in banca, poi si è messo a fare un vino strepitoso. Sono tutti bravi e sono venuti fuori col lavoro delle loro braccia e affondando le  mani nelle zolle. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Mi hai fatto assaggiare il Doc Langhe Rossese Bianco, una chicca delle Langhe, un tuo colpo di genio… un fascino misterioso della storia dietro quelle bottiglie!
È vero. Tanti anni fa, il nostro vicino di vigna, Giovanni Manzone, possedeva qualche filare di questo vino prodotto esclusivamente nel comune di Monforte. Un vitigno antico, a rischio estinzione, proveniente dalle Cinque Terre (era uno degli uvaggi dello Sciacchetrà), giunto nelle Langhe nell’Ottocento, recuperato verso la metà degli anni ’70. È frutto di vendemmia tardiva, quando una parte degli acini è colpita da muffa nobile. Un giorno mi trovai nella cantina di Giovanni e lui stappò una bottiglia vecchia di 8 anni. Assaggiai questo vino e rimasi folgorato. Ancora fresco e un’esplosione infinita di profumi. Ho fatto che piantarlo in una nuova vigna a Roddino e la produzione non riesce a stare dietro alle richieste.

Per chiudere, Roberto, che meriti dobbiamo dare a Sara, tua figlia, dinamica Donna del Vino?
Avere capito la situazione. Lei ha compreso subito che il Barolo sarebbe diventato il core business dell’azienda. La struttura della cantina l’ho progettata io, ma Sara ha fatto tutto il resto: si occupa della comunicazione, cura l’accoglienza, definisce le idee progettuali, si occupa dell’indirizzo biologico dell’azienda e del mantenimento della biodiversità, organizza gli eventi. Ma non si ferma mai, è molto attenta alle questioni ambientali, al risparmio energetico e all’utilizzo di energie alternative per la produzione. Lei non ha solo il tempo per fare il vino!

Dove può arrivare Sara?
Se non troverà ostacoli imprevisti, penso che in futuro possa arrivare molto in alto, tra i primi 10 produttori nazionali. È un orgoglio per me.

E i tuoi desideri dove si fermano…?
A produrre noi un Alta Langa, è lì che voglio arrivare. Nel 2024 lo assaggeremo insieme. Voglio vedere l’evoluzione di questa cantina. A Murazzano voglio piantare Riesling, Pinot Nero, Sauvignon Blanc, Moscato per fare il Passito di Moscato da vendemmia tardiva e il Brachetto. Voglio sottolineare, però, che per fare rendere economicamente un’azienda bisogna produrre un vino soltanto. Non è il nostro caso, perchè Sara ed io non guardiamo a questo! Non si vive solo per il denaro. Quello che conta per noi sono le soddisfazioni che stanno arrivando e quelle che arriveranno, lo spero almeno.

                                                                                              Andrea Di Bella