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Come un gesto, una canzone, una foto riescono a rievocare in noi emozioni...

Martedì, 12 Gen 2021 - 0 Commenti

"Durante lo show di Giuseppe Fiorello di ieri sera, su Rai1, dedicato alla memoria di suo padre, i ricordi della sua famiglia, della sua fanciullezza, dell’adolescenza vissuta nel suo paese, nella Sicilia degli Anni Settanta, improvvisamente ho rivisto mio padre, il mio passato..."...

“Penso che un sogno così”: dalla scena teatrale di Beppe Fiorello al ricordo di mio padre.

Bravo, bravo, bravo! Mi riferisco a Beppe Fiorello che ieri sera su Rai1, in prima serata, ha riassunto sessant’anni della sua vita familiare e, per colonna sonora, le indimenticabili canzoni di Domenico Modugno: “Penso che un sogno così” è il titolo della rappresentazione teatrale dove l’artista siciliano ha espresso notevoli doti da palcoscenico.

Ricordi della sua famiglia, della sua fanciullezza, dell’adolescenza vissuta nel suo paese, nella Sicilia degli Anni Settanta.

Il rapporto col papà stroncato da un infarto prematuramente (“vado a prendere le sigarette in macchina e torno”, aveva detto alla moglie, mentre  ballavano, il giorno di Carnevale del 1958, ma fu trovato con la cravatta slacciata e le mani sulla testa), la vita semplice di allora, il rapporto con una parentela attiva e presente in ogni momento, la questione sociale del lavoro, le promesse della politica, l’emigrazione, la festa patronale, giusta occasione per il ritorno di Joe, emigrato negli Stati Uniti in cerca di fortuna, ora ricco e attorniato da donne.

Tu si ’na cosa grande” è la canzone che Beppe ha cantato assieme al fratello Rosario, in divisa da Guardia di Finanza (FOTO) l’hanno dedicata al padre, con lo sguardo rivolto al cielo: è stata la scena che ha toccato il cuore di tutti, un momento davvero emozionante e commovente che ha coinvolto milioni di telespettatori.

Una dedica, attraverso la meravigliosa canzone di Mimmo… e il pensiero vola, la mente torna indietro di tanti anni, ripercorre gli stessi raccontati da Beppe, un viaggio intenso e profondo che attraversa l’Italia di quel tempo.

La vita di chi parte da un paese, da qualsiasi luogo del Sud per cercare fortuna o migliorarsi è simile per tutti e i ricordi di allora accomunano gli emigranti: la vita sociale, la questione lavorativa, la semplicità dei comportamenti, gli affetti familiari.

Beppe Fiorello in questa realizzazione teatrale ricorda la figura di papà Nicola, i suoi sacrifici per mantenere unita la famiglia, la sua morte improvvisa, in quella via buia, quella sera, senza possibilità di essere soccorso.

Se penso a mio padre, ricordo un uomo buono, di carattere mite, sempre disponibile e remissivo. Un uomo che aveva fatto della divisa di ferroviere il suo abito più bello, più gradito. Era l’ultimo di una serie di figli, coccolato da suo padre, anche lui ferroviere, grande lavoratore e dotato di affettuosità infinita verso tutti.

In paese era conosciuto, per via del suo mestiere alla stazione e poi perché, nelle mezze giornate libere, aiutava le mie due zie signorine nella conduzione di un’antica tabaccheria, lui che non era fumatore, dove si riforniva più di mezzo paese.

Sempre di poche parole, attento alle questioni di famiglia, affabile e pieno di premure e di attenzioni.

Non potrò mai dimenticare le sere d’inverno e quello scaldino che lui poggiava sul mio letto per riscaldarlo, prima di dormire, dopo il segno della croce e una preghiera di ringraziamento.

Si, in famiglia era lui preposto a preparare la “conca”, il braciere che doveva riscaldare la casa, nei pomeriggi freddi in cui l’Etna era vestito di neve, fino in basso. Era lui, che con la mamma, si adoperava a cercare la legna per “preparare il forno”, dove, da lì a qualche ora, un fumo meraviglioso si affacciava dal camino e annunciava che pane, schiacciate e biscotti alla mandorla avrebbero profumato l’intero quartiere.

Lo ricordo già vecchio, con poca vista, davanti a uno specchio appeso al muro del cortile che rifletteva la barba bianca e i baffetti curati, mentre cercava di radersi, dannandosi l’anima perché stava perdendo la vista.

E quante volte, al passare del treno (la nostra casa guardava da vicino la ferrovia), i macchinisti lo riconoscevano e lo salutavano, emettendo il fischio del locomotore… ma lui non si rendeva conto di chi potesse essere.

Lo amavano tutti sul lavoro; lui, sempre impeccabile, faceva il suo dovere correttamente e onestamente, preciso e imperturbabile, ricevendo lodi e apprezzamenti.

Ricordo con tanto amore e molta commozione quelle notti infernali, tra lampi e tuoni e lui lì a saltare tra un binario e l’altro, a “fare manovra coi treni merci” sotto la pioggia battente, illuminato soltanto da una lanterna e guidato da un intuito superlativo, sapendo dove mettere mani e piedi, nel buio più profondo.

Io bambino, sveglio e preoccupato, ascoltavo il suo fischietto, rivolgevo la parola a mia madre, nell’altra stanza, che mi rassicurava “adesso papà arriva per cambiarsi il vestito inzuppato di pioggia, non ti preoccupare, lui sa quello che fa”.

E infatti dopo poco, sentivo un passo svelto, nella notte e la chiave della porta che sbatteva contro il muro: era lui che, per avvisare che stava arrivando, dava dei tocchetti con la grossa chiave, un suono sordo e unico che risuona ancora nelle mie orecchie.

Era un uomo religioso e pieno di tenerezza.  Mia madrea mi raccontava che quando ero già a Torino, all’Università, e dovevo dare un esame, lui, preoccupato, si recava vicino casa, in una stradina di campagna, che portava al mare, tra i limoni, accendeva un piccolo cero a Gesù Bambino nell’altarino e pregava. Un gesto semplice, un grande cuore, una fede profonda oltrechè un bene immenso.

Piccoli gesti che hanno dato sicurezza, fiducia, armonia, serenità a tutta la famiglia, anche nei momenti difficili, coadiuvato dall’energia immensa di mia madre. “Nonno Pietro” per i nipoti rappresentava un punto di riferimento, la gioia attesa, il sorriso incoraggiante, la carezza dolce e benevola.

Il cortile di casa era il suo regno. In estate diventava un palcoscenico. Lui era un grande commediante, un osservatore della società, dei costumi e dei personaggi che gli giravano intorno. Amava raccontare aneddoti, storie legate a quella società rurale e ai soggetti che la componevano, ma riusciva anche a inventare fatti e a mettere in piedi caricature straordinarie… e noi, famiglia e parenti che affollavano il cortile, tutti attorno ad assistere e ad applaudire come in un teatro.

Il cortile era organizzato da lui e da mia madre per preparare grandi tavolate a pranzo e a cena, nella bella stagione. La mamma si occupava del cibo, era una cuoca eccellente, mio padre era quello che portava in tavola “ i vini padronali”, i vini contadini acquistati qua e là negli antichi palmenti dell’Etna, a Milo, a Zafferana. Vini profumati e speciali. E le cene duravano fino a notte fonda sotto le stelle brillanti di Sicilia.

E poi la vita assieme a mia madre, quasi 70 anni, mai un litigio, una parola di troppo, una mancanza di rispetto tra loro. La portò via alla sua famiglia a 15 anni, una bambina, la sposò e la rese felice tutta la vita. “Lina sei stata l’unica donna della mia vita, ti ho sempre voluta bene e ora che te ne sei andata, che ci sto a fare io qui. È bene che il Signore mi porti con sè“. Sono le ultime parole che mio padre pronunciò nel momento in cui mia madre era volata in cielo.

Dopo sei mesi la raggiunse in Paradiso. Era il 18 gennaio 2004.

                                                                                              Andrea Di Bella